Riccardo III: l’usurpazione del potere e la dissoluzione dell’anima

30.05.2013 14:28
  • Se la ricerca storica e filologica pone dubbi sull’unicità dell’autore della gran copia di tragedie, drammi storici, commedie, liriche nei quali Shakespeare ha espresso il suo genio, ci sembra che una parziale conferma a tali dubbi possa venire dal dramma del re che tinse il suo mondo di sangue infrangendosi l’anima contro ogni principio, religioso politico familiare, che gli si opponesse. Ma torniamo alla paternità, interamente o parzialmente legittima, dell’opera. Il dubbio che altre mani abbiano partecipato alla stesura del dramma si insinua al cospetto dello stile greve che scandisce, come un funebre rintocco di campane malate, l’ininterrotta sequela di morte, senza consentirsi sbocchi di respiro e di luce. Se si esclude qualche rigo del monologo iniziale dove la splendida estate e il sole di York sembrano fugare, insieme all’inverno dello scontento di una guerra infinita, il male assoluto rintanato tra le mura di una Torre sempre presente a far da emblema, la trama e il ritmo della narrazione ci risucchiano ben presto nel progetto di sterminio di un programmatore così monco e contraffatto che i cani latrano di me quand’io zoppico accanto a loro e che non potendo fare l’innamorato, è risoluto a colpir con l’odio i frivoli piaceri di questi giorni.

    Manca qui quell’arioso lirismo che il grande drammaturgo usa diffondere, talvolta in tono decisamente minore, nella sua opera, per sdrammatizzare il dramma, ossimoro idoneo a quella dissoluzione dei generi tipica del teatro elisabettiano (anche se Shakespeare è al di fuori e al di sopra di ogni categorizzazione), che viene ribadita dalla sintetica frase di Polonio: I migliori attori del mondo, tanto per la tragedia che per la commedia. Nella tragedia del re, nel quale si estingue una delle due Rose della dinastia inglese, sembra che levità e ironia si siano smarrite, insieme al cuore e alla coscienza del re, nelle ombre che celano talvolta gli aspetti più crudi di questo trionfo della morte. Il dramma coglie un frammento di vita, un grumo infetto che ha fermato, contagiandolo, lo spazio e il tempo che lo circondano. Distruggendo sotto l’azione corrosiva dell’odio, verso sé stesso, prima che verso il resto del mondo, ogni residuo della sua umanità straziata, Riccardo si pone contro ogni regola, coerentemente col suo corpo che il mondo rifiuta ed alla cui difformità egli vuole adeguare quanto in esso si cela: mente, anima, pensiero, dolore. Ad ogni esecuzione capitale, alcune palesate, altre soltanto narrate, altre intuite, più roca ed echeggiante si fa la voce, più grezzo il linguaggio, più incerto l’incedere, più sofferto il procedere nei meandri della reggia e della Torre. Ed è forse proprio per questo che, nonostante le sue gesta, sia di guerra in difesa del fratello, sia di pace per l’accaparramento del trono, Riccardo non è un eroe, e la sua propensione al male non è quella demoniaca di Macbeth, nel quale avanza una barbarie di ritorno, né quella, assoluta, sottile, pura di Iago. Pur nutrendosi del suo odio e del suo sterminato dolore, Riccardo non chiede assoluzioni ad un mondo che ne ha rifiutato il corpo malato che anch’egli rinnega, come rinnega l’anima che dovrebbe alloggiarvi, omologando l’una all’altro fino a rendersi un fantoccio grottesco nella sua alterità. Teso alla sua unica garanzia di sicurezza e di vita, il potere, egli semina morte e terrore per non restarne vittima ed allestisce, immune da ogni tentazione, intriganti trappole d’amore e d’odio per inconsapevoli prede. Nel suo rifiuto di vincoli e regole umane e divine, egli si rinnega come uomo e sostituisce a sé stesso un automa delirante d’odio, ma l’uomo che gli si accovaccia dentro è attanagliato dal terrore di perdere quel potere che ha pagato col sangue di vittime sacrificali alla sua ancestrale paura come ad una diabolica divinità: quel regno egli lo offrirà per un cavallo, per darsi quindi alla fuga volgendo le spalle al nemico come un qualsiasi, fragile membro di quell’umanità alla quale ha rifiutato di appartenere. Se questa è una delle letture possibili del fosco dramma di Riccardo, ci sembra che l’interpretazione di Alessandro Gassmann, nel Riccardo III che egli interpreta e dirige al Teatro Bellini di Napoli, risponda a questo intento dell’autore. Il Riccardo di Gassmann sembra mosso da un macabro meccanismo del tutto estraneo alle membra umane, dalle quali sono assenti, o forzate fino all’estremo, la flessibilità e la coesione agli ordini della mente. Un motore sembra attivare gli inceppati ingranaggi del sinistro robot che rifiuta ogni rassomiglianza con l’uomo che egli, in un altro mondo e in un altro tempo, è stato. Nel suo meccanicizzare gesti e linguaggio, nel suo sfidare con la sua statura, che serba intatta, la convenzione scenica della difformità come discesa verso il suolo, il Riccardo di Gassmann rappresenta una ben riuscita eccezione alla consueta regola teatrale. Al suo livello di regista e di interprete si pongono la recitazione dei comprimari. Le scene sono essenziali nella loro assenza di colore, allusive nelle velature, minacciose come depositarie di tremendi segreti che ancora hanno il potere di far nascere in noi dubbi, non sull’immenso autore del dramma, ma sull’infinito dolore che alcune vite hanno dovuto pagare per la circostanza, non richiesta, di essere al mondo.

     

    Anna Maria Siena Chianese

     

     

    Shakespeare, Riccardo III, Teatro Bellini di Napoli

    Traduzione e adattamento di Vitaliano Trevisan

    Regia di Alessando Gassmann

    Interpreti: Alessandro Gassmann e, tra gli altri, Mauro Marino, Giacomo Rosselli, Sergio Meogrossi, Paila Pavese.

    Costumi di Mariano Tufano, musiche di Pivio e Aldo De Scalzi.

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