Quartett visto da Carlo Cerciello

09.02.2014 10:51

Le allusive scene di M.Perrella e gli impeccabili costumi di J.Luzny sono tra le componenti determinanti dello spettacolo Quartett in scena al Teatro Elicantropo fino al 2 marzo.

Carlo Cerciello, regista che non delude le aspettative, ammette che le sue scelte possano sembrare velleitarie “per un piccolo spazio autogestito come l’Elicantropo, i cui unici sostegni sono il pubblico e la scuola di teatro.”   

“Quando si mette in gioco tutto sé stesso si può parlare, se mai, di particolarità: a lei la definizione.”

“Aborro le classificazioni del burocratese tra gerarchie di nobiltà ai fini di potere e di danaro, tese a vivisezionare il teatro in generi quali avanguardia, ricerca, impegno: come se potesse avere senso un teatro di retroguardia, o un teatro senza ricerca, o senza impegno quale responsabilità sociale, etica e politica nei confronti del pubblico, al quale ci presentiamo in veste di comunicatori, affabulatori, sognatori, non certo di semplici animatori. Senza tutto ciò non c’è teatro, la cui unica, e irripetibile funzione, è quella della comunicazione diretta, immediata e senza rete, dell’uomo verso l’altro uomo. É facile quindi comprendere perché ho scelto  Quartett di Muller, riscrittura destoricizzata e in forma di commedia di Les liaisons dangereuses di Choderlos de Laclos del 1782. il cui tema principale è lo sterile esercizio del potere. Il vuoto ideologico che ne deriva è sottolineato dalla folle e sarcastica corsa dei due protagonisti verso l’autodistruzione, compiuta a colpi di teatro nel teatro, dove lo scambio di ruoli e di maschere genera confusione e smarrimento delle identità e i lunghi monologhi dialoganti sono l’arma di un confronto-scontro esangue, per decretare la morte  dall’infinito patrimonio dell’ideologia e il trionfo del nichilismo più assoluto.”

“Tutto ciò, in uno spettacolo con due soli attori e quasi senza scenografia: quasi una sfida…”

“ O un’interpretazione come ritualità, ormai defunta o quasi nel nostro Paese, dove la rappresentazione e lo spettacolo hanno preso il sopravvento sullo ‘sguardo oltre’ che deve avere il teatro.”

“Oltre lo stesso spettacolo?”

“Oltre il  rappresentato e l’ascoltato, sorretto da una motivazione semiologica e politica fatta per denunciare il crollo culturale del nostro Paese. Muller, come Brecht, non insegue il facile consenso, ma ama la provocazione, la polemica, perché la funzione del teatro è quella di mettere in crisi le certezze e gli oblii dello spettatore e fargli ricanalizzare la realtà con la lente d’ingrandimento della coscienza.”

Carlo Cerciello è validamente affiancato da due attori, calati in duplici ruoli e capaci di cambiar pelle pur restando negli stessi panni. Imma Villa è, di volta in volta, un’aggraziata damina e un’intrepida manipolatrice di anime che sembra anticipare un’altra signora del male in arrivo: madame la guillotine, mentre Paolo Coletta passa attraverso i suoi ruoli come un Dorian Gray col suo ambiguo gioco di corpo e d’anima. Autore di parte della musica, che consideriamo la terza interprete di Quartett, Coletta ne attribuisce la scelta “all’ amore, comune con Cerciello, per un utilizzo della musica a teatro che sia nel contempo emozionale e concettuale. Attinte dall’infinito patrimonio culturale dell’Occidente, da J.S.Bach in poi, le musiche scelte fanno risaltare l’isolamento, nella loro guerra senza fine, dei protagonisti, due titani chiusi in un labirinto, che se ne infischiano del richiamo del tempo e della storia.”

 Così Mozart, Strauss, Verdi, Puccini, Ravel, ma anche autori di tematiche e di tempi più recenti, sono chiamati a sottolineare i momenti più significativi dello spettacolo. E se la funzione dei classici è più facilmente interpretabile, la musica di Where or when di R. Rodgers-L. Hart, “tesa a creare un clima di tranquilla serenità nelle prime scene”, come ci dice Coletta, ripresa nel finale, ci sembra dire che la vita può continuare, nonostante i suoi orrori. Quanto all’incantevole Violetera di J.Padilla- E.Montesinos, immortalata da Chaplin nel suo immortale Luci della città, Coletta le dà il sapore dell’innocenza perduta e all’Inno nazionale israeliano affida l’ultimo monologo di Valmont: sagaci scelte per un dramma apparentemente incruento che continuerà, per secoli, a suscitare sussulti palesi e inespresse grida con la forza d’urto del dilemma tra bene e male e dell’eterno mistero della vita che, malgrado tutto, malgrado anche sé stessa, decide di non fermarsi, lasciandosi scandire dalle musiche eroiche quanto da quelle tenere che mascherano interrogativi che non aspettano risposta né al when, né al where delle nostre domande, rivolte soprattutto a noi stessi.

Anna Maria Siena Chianese 

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