NAPOLI TEATRO FESTIVAL ITALIA THE MAKROPULOS CASE: gara di tempi tra la vita e la felicità

16.07.2012 18:59

 

Non ci sarebbe da parlar di trama né di storie sottese quando si ha la fortuna di assistere ad uno spettacolo i cui quadri e personaggi, partendo da un ipotizzato enigma, vivono già tanto di loro, mossi da un burattinaio che opera le sue levitanti magie di luci e suoni lasciandoli scivolare dalla apparente coerenza a se stessi e al proprio spazio d’azione ad una spesso enigmatica percettibilità dei loro ruoli, imbrigliando gli spettatori tra le righe di una misteriosa partitura della quale essi sono le piccole, agili, danzanti note.

Assumendo via via gli scatti del tempo che ne scandisce l’andamento vibrante, gli abitanti della bottega magica di Wilson sembrano godere argutamente del far parte di un intreccio dalla demoniaca implausibilità che ha scardinato le leggi della vita, scrostandola da convenzioni e da sensi obbligati. Essi adempiono ineccepibilmente all’incarico di raccontare con irrequieta tenerezza e con apparente acriticità la storia di una donna che il tempo ha colto al suo volubile amo, agganciandola arbitrariamente ad una pseudoeternità e lanciandola, sola, a percorrerne il corridoio senza sbocchi apparenti.

Un corridoio, quello del tempo della nostra protagonista, che nonostante le curve e i suoi anfratti, le scale in salita e le precipitose discese che ne fanno parte, come di tutti i tempi e come nei tempi di tutti, non lascia traccia di sé sul volto di Emilia Marty né sulla sua voce, che anzi si arricchisce di continue esperienze e contagi d’arte, né sulla sua capacità di adeguarsi al mondo che le gira intorno e allo stravolgimento inarrestabile che ne sta sbriciolando la vita.

Cambiando nome, ma conservandone le iniziali come iniziatiche del suo lungo vagabondare, la viandante di un tempo i cui anni non è dato di solito all’uomo contare inanellandone le candeline passa nei secoli con incredulo orgoglio, effondendo intorno a sé il suo enigmatico fascino e la sua voce che sembra attingere dal fiume infinito che le scorre intorno sempre nuove freschezze. Ad un certo punto del percorso, prossimo alla meta, lo sgomento per l’inaridirsi della vita in una cappa di angosciosa estraneità dal reale si trasforma nella paura di una soluzione inaccettabile alla sua fiducia in una eternità senza capolinea.

I personaggi che sembrano ineffabilmente scandirne i diversi stati d’animo, come a volerne valutare e insieme svalutare il vissuto, con la fragile instabilità che è propria della vita sorgono e si immergono in un qualche fondo buio alla ricerca della parte di essa che continua a latitare, quella parte non vissuta in trecento anni, come in qualsiasi altra sia pur breve vita accade, dove si annidano le contraddizioni insolubili da portare alla superficie dove si addensano tutti i significati, senza tentarne mediazioni.

L’oro della giovinezza infinita si trasforma in una moneta inflazionata dal suo stesso eccesso. La diva rifiuta la puntualizzante cronaca della realtà, che pure fa parte del suo passato e del suo presente, nella trascolorante illusione di un’eternità che ogni giorno si relativizza provandole che la quintessenza della vita non si raggiunge se non facendo i conti con la privazione di essa. Nel disperdersi della coordinata del tempo, Emilia Eugenia Elian si trova faccia a faccia, e se ne fa a sua volta messaggera, con la consapevolezza che non si può amare né soffrire per trecento anni e che qualsiasi aspirazione è destinata a disperdersi nella inappagante megalomania del tempo.

Lo spettacolo di Wilson non è solo originalissima, estrosa e incantevole rappresentazione teatrale del testo dai periodici ritorni, scritto nel 1922 da Karel Capek, ma il frutto di un pensiero che si inoltra profondamente nel desiderio di estrarre un’essenza dalla fluidità di un tempo che scorre senza svanire, che non si sovrappone alla vita ma si immedesima con essa purché se ne comprenda e se ne accetti, con ironia un po’ amara, la fuggevolezza e l’insanabile conflitto tra la sua verità e la sua rappresentazione.

Di Sona Cervenà i quasi novant’anni non hanno compromesso lo charme e la leggerezza, che ne fanno l’insuperabile interprete dell’eroina di una sofferta longevità; le sono corona i bravissimi interpreti, mutevoli, deliziose maschere di stati d’animo o di destini o di momenti della vita: allo spettatore la libertà di approfondirne i ruoli.

 

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