NAPOLI TEATRO FESTIVAL ITALIA - Napoli e Pergolesi di Anna Maria Chianese Siena

07.08.2010 15:05

Il titolo è già brillantemente emblematico, può definirsi anzi un’endiadi, artificio stilistico che consente di esprimere un concetto mediante la duplicazione dei termini che lo designano intensificandone l’efficacia espressiva.

In “Napoli e Pergolesi” i due termini si fondono in una sola unità concettuale perché per almeno due secoli - dalla metà del Settecento fino al tardo Novecento - dire «Pergolesi» ha significato per il mondo dire «musica napoletana», e viceversa. È questa la sostanza del “mito pergolesiano” che sembra inevitabile dover celebrare insieme con il trecentesimo compleanno del musicista jesino: negli ultimi decenni, storici e filologi lo hanno efficacemente, talora provvidenzialmente demolito; ma nell’immaginario collettivo, (per la validità che ha oggi usare quest’espressione per un tema di questo tipo) esso continua a vivere, dimostrando così la fondatezza delle sue ragioni storiche.

Ad alimentarlo, concorsero una serie di circostanze straordinarie. Prima di tutto, la meteorica parabola esistenziale del musicista, spentosi a soli ventisei anni; la concentrazione in poco più di un lustro di attività professionale, dal 1730 al 1736, di almeno cinque opere fin da subito  avvertite come esemplari nel loro genere (La serva padrona, Lo frate ’nnamorato, L’Olimpiade, lo Stabat mater, la cantata Orfeo); la scarsezza di documenti che circondò di un’aura misteriosa una vicenda biografica segnata dalla malattia e dalla morte e fece fiorire attorno ad essa una incredibile serie di congetture e di leggende fra le quali, infondatissime, quella della sua estrema indigenza e ancor più quella dell’incomprensione del suo genio da parte dei contemporanei.  Straordinario era anche il contesto culturale e sociale che alimentava, sosteneva e circondava quell’attività. La Napoli dei primi anni Trenta del Settecento era un’incandescente fucina intellettuale e artistica: era la Napoli dei Vico, dei Gravina, dei Giannone (per non citare che i massimi); la Napoli che metteva a punto il nuovo genere della commedia per musica, la sola, vera autentica “invenzione” del Settecento (il giudizio è di uno dei più autorevoli storici del secolo scorso, Wolfgang Osthoff); la Napoli che forniva a Pietro Metastasio l’humus culturale e gli strumenti tecnici per la rifondazione “moderna” del dramma per musica, ne teneva a battesimo il memorabile prototipo (Didone abbandonata, 1724), e propiziava il volo dell’autore verso l’aulico soglio di poeta cesareo, a Vienna; la Napoli dalla quale, da questi anni fino alla fine del secolo, parte una continua diaspora di musicisti che diffusero in tutta Europa le novità che si andavano creando in patria. Una Napoli ribollente, rigurgitante di musica: vi agivano quattro teatri pubblici, quello di Corte, le sale private dove le più cospicue famiglie nobiliari gareggiavano ad allestire spettacoli, ma incommensurabile era la produzione di musica sacra quotidianamente richiesta sia dalle istituzioni religiose d’ogni ordine e tipo sia dalle congregazioni laiche devozionali; quattro Conservatori, istituiti fra il Cinque e il Seicento come ricoveri per l’infanzia abbandonata, ma al tempo di Pergolesi scuole di musica già famose in Italia e Oltralpe per l’eccellenza dell’istruzione impartitavi, sfornavano senza posa gli addetti ai lavori (compositori, cantanti, strumentisti) necessari per sopperire a un così famelico fabbisogno musicale.

Che questa Napoli così assetata e così alacre produttrice di novità abbia riconosciuto in Pergolesi il suo figlio d’elezione non è mito, ma verità storica: lo prova la segnalazione di un altissimo dignitario di Corte che nel 1732 lo raccomandava come particolarmente adatto «al bisogno che tiene la Cappella Reale de sogetti che compongono sopra il gusto moderno», e lo prova nel 1733 la replica (eccezionalisima per il costume teatrale dell’epoca, che bruciava implacabilmente anche i successi più clamorosi) de Lo frate ’nnamorato rappresentato l’anno prima ai Fiorentini. “Gusto moderno” è la parola chiave: vuol dire liberazione dalle ampollosità, dalle ridondanze e dalle rigidità del barocco; vuol dire far spazio al sentimento individuale, vuol dire andare incontro alla pronta disposizione a commuoversi così tipica del “razionale” Settecento (si pensi all’ autentico fiume di larmes che inonda gli scritti di Rousseau e di Diderot, per tacer degli altri): questo non solo nel campo della musica teatrale (qui il sentiero era già stato tracciato dalla commedia per musica e dal dramma metastasiano), ma anche nella musica sacra e devozionale: ed è qui, nella pietas intrisa di tenerezza dello Stabat, che Pergolesi  può forse vantare il primato dell’innovatore assoluto. Questa, almeno, fu la palma  che gli riconobbero i contemporanei fin dagli anni immediatamente successivi alla morte: nel 1739 Charles de Brosses, il più illustre dei “gran turisti” settecenteschi, lo proclamava «le chef-d’oeuvre de la musique latine», e apriva la strada alla sua trionfale dittatura a Parigi nell’ambito della musica sacra (se ne contano ottanta repliche per ventotto anni consecutivi al Concert spirituel); tra il 1741 e il 1746 Johann Sebastian Bach intransigente difensore della grandezza dello stile antico contro la moda del “gusto moderno”, ma anche in età avanzata vigile e sagace intercettore delle novità di rango, ne adottava la musica per una propria parafrasi del Miserere.

Il concerto Napoli e Pergolesi, direttori Pietro Mianiti e Maurizio Benini, soprano Maria Rosaria Lo palco e Rosa Bove, spettacolo prodotto dalla fondazione Teatro San Carlo nell’ambito del progetto “aspettando Pergolesi”, presentato nell’ambito delle manifestazioni di Napoli Teatro Festival Italia è la preziosa conferma di tale moderna e intramontabile vis artistica del musicista.

Viene fatto di chiedersi di quali tesori abbia privato la musica la morte che l’ha fermato così precocemente nel suo aspetto dolcemente severo, ancora circondato da una sorta di incantevole grazia adolescenziale.

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