Napoli Teatro Festival Italia Lo Spopolatore: Brook legge Beckett

14.06.2013 09:21

Opera narrativa distante diversi lustri da quella letteraria dalla scarsa eco, e da quella teatrale che rese Beckett celebre e sempre più convinto di aver trovato l’approccio giusto a quella serialità di inani attese e di infinito di dolore impropriamente chiamata vita, Lo Spopolatore pone nella loro nudità di uomini, che pur sanno di esserlo, i suoi personaggi in un cilindro, forma di ogni plausibile allegoria ma non privo di un periscopio che possa consentire ai suoi ospiti la percezione prismatica, ma non per questo meno amara, di questa e dell’altra vita. Che lo Spopolatore sia un manipolatore di Bombe H o un addetto alla manutenzione energetica di Auschwitz o un nocchiero di barche non proprio da gite marine non ha poi molta importanza anche perché, con pari esito, potrebbe esserlo un corretto, accademico esattore delle imposte dei nostri giorni: l’importante è spopolare, indipendentemente da quale sia la longa manus che esegue il comando dall’alto. Non si può non dare atto all’autore di aver dato vita e forma, nonché senso, anche se talvolta troppo denso per venir pienamente assimilato dalla platea variegata di dubbiosi, entusiasti, diffidenti e plaudenti, a una materia teatrale sempre intrigante, non sempre accattivante, ma che ha il merito di porre, finalmente, interrogativi meritevoli di almeno una o due indagini nel profondo di noi e del nostro prossimo. Più di una generazione si è lasciata permeare dallo stile beckettiano di osservare la vita e di porre il suo piccolo e fragile, ma non per questo indifeso, protagonista non al centro del mondo, ma nelle più strambe e acrobatiche periferie costringendolo a cercare nel suo sabbioso, rabbioso, disfatto humus gli appigli necessari ad ancorarsi a qualcosa convenzionalmente chiamata vita. Quanto al regista del quale il mese in Campania sembra aver accentuato l’humour, sia pur nero, diciamo che l’essere il testo una narrazione e non un copione ha elimininato dalla performance anche quei refoli di scena e di dialogo presenti talvolta in Beckett quali forme di comunicazione, sia pure rigorosamente non-sense. Dando quindi, con qualche riserva, per obbligata la scelta della mancata versione scenica del lavoro, ossia del testo, passiamo alla premessa nelle note di regia dove il regista afferma e profetizza che «Beckett infastidisce sempre con la sua onestà» e che «subito si dice che i suoi testi sono così pessimistici». I pronostici si concludono con il proposito di «approfondire la parola pessimismo perché non c’è niente di più positivo che le opere di Beckett.» Ecco, qui forse lo spettatore, pardon, l’ascoltatore, meriterebbe dal regista una più ampia discrezionalità di giudizio su tutto quell’insieme che fa di Beckett l’autore che o si ama o si odia e i cui personaggi non sono dannati pur essendo disperati né sono degenerati pur essendo emarginati né sono senza futuro pur sapendo che non ne vedranno spuntar nuove foglie… e si potrebbe continuare così, all’infinito, passando per le emblematiche correnti novecentesche alle quali Beckett ha fatto sventolare i suoi panni e le sue bandiere…Così stando le cose, quella del regista ci sembra un’imbeccata semplicisticamente riduttiva sulla grande problematica beckettiana, nonché, quantomeno, inopportuna poiché, parola di ascoltatore, ognuno dei presenti in sala era in grado di confrontarsi con gli invisibili personaggi e di tentare una sommatoria, possibilmente di segno positivo, del proprio positivismo con quello che, convincentemente mascherato da nichilismo, condannava al moto perpetuo su e giù dal tubo i propri simili i cui pensieri bastavano ad aggrovigliar le viscere a Miriam Goldschmidt, la esautorata lettrice, in tono minore, del testo-elegia. A ciascuno il suo, hanno detto in tanti. Al regista la regia, al pubblico quanto ne segue. E così, sia.

Anna Maria Siena Chianese

 

 

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