NAPOLI TEATRO FESTIVAL ITALIA - Giulietta e Romeo di Anna Maria Chianese Siena

07.08.2010 15:07

Che Romeo e Giulietta siano abitanti permanenti del mondo letterario e teatrale non è certo una novità. Essi, alla pari di Carmen o di Don Giovanni, sono cittadini dell’universo e non vi è epoca o territorio o etnia ai quali possano considerarsi estranei: basti pensare alla leggenda babilonese che Ovidio  ospita nelle sue Metamorfosi, l’opera dell’antichità classica forse più diffusa nella cultura medievale europea (che è stata,  probabilmente, una fonte perfino per Shakespeare), che parla dell’amore e della morte dei due giovani, del velo insanguinato di Tisbe e del suo suicidio dopo quello di Piramo, ignaro della sopravvivenza dell’amata.

Nessuna meraviglia, dunque, che nell’accurata traduzione di Agostino Lombardo il regista anglo-russo Alexander Zeldin ne abbia fatto rivivere la storia in uno spettacolo dove diverse culture confluiscono in corale sintonia.

Del resto, i capostipiti inglesi della infinita discendenza dei nostri eroi sono nati in pieno Rinascimento italiano, in una Verona vista da un inglese divenendo l’archetipo di tutte le successive rinascite sotto i diversi cieli e nelle diverse epoche.

Applausi poco più che cortesi, qualche “bau” dai piani alti del Mercadante hanno accolto il  lavoro dei bravissimi giovani della Compagnia Teatrale Europea che hanno dato vita ad uno spettacolo che pecca forse per lunghezza: ci sembra che, ad esempio,  qualche a solo della balia avrebbe guadagnato in efficacia con opportuni tagli, e il suggerimento non scandalizzi i puristi dei testi sacri da sempre manomessi pesantemente, e per fortuna, nei vari secoli della loro vita.

La scenografia di Gorge Tsypin è intrigante per certi aspetti, velari che si fanno sudari e sudari che si gonfiano al vento di una effimera vita, luci, effetti di profondità e di distanze e, strategia scenografica per eccellenza,  l’unico e poliedrico musicista che in un angolo del palcoscenico ha sottolineato con accordi e strumenti diversi le varie fasi del dramma.

Ci sembra tuttavia che gli accenti, i volti, le impostazioni, gli accenti  di una compagnia dalle origini etniche e territoriali così diverse tra loro, emblematicamente chiamata ad interpretare un dramma di dolore e di morte, siano sufficienti a dimostrare il riferimento dei personaggi al grande, emarginato Sud del mondo, senza bisogno di insistere su simboli ormai scontati e pleonastici di una scenografia già sufficientemente allusiva.

Resta da dire un bravo agli interpreti che si sono calati nei personaggi con un’attenzione, un piglio, una disinvoltura nella voce, nel gesto, nell’uso dello spazio teatrale giovane e innovativo del tutto avulsi da ogni retrogusto accademico, spesso in  agguato in testi come il dramma dei due giovani amanti, intramontabile purché presentato, interpretato e soprattutto visto nella convinzione che la sua intramontabilità è affidata a noi. 

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