NAPOLI TEATRO FESTIVAL ITALIA: Concerto per DIEGO di Anna Maria Chianese Siena

07.08.2010 15:03

 Nel l987, anno della nostra prima intervista a Diego Armando Maratona, oggi celebrato dal Napoli  Teatro Festival Italia  con  due spettacoli: ‘El Diego n.10 musica d’autore per goal e orchestra’ e ‘Football,football’, Napoli lo chiamava Dieguito, diminutivo languido che sembrava inappropriato alla figura di torello, all’impeto, alle corse sfrenate sul campo ma non al  rapporto carmico del campione con Napoli, allora nel suo pieno splendore.

 E’ il maggio del l987, una riluttante primavera nella quale l’unico azzurro è quello che si innasta nelle bandiere di festa e si gonfia  nei mille palloncini, cielo di vicoli  della città vincitrice dello scudetto nel nome del ragazzo argentino che fa parte da tre anni della squadra.

Domenica 6 giugno 2010, giusto 23 anni dopo, Diego Maradona saluta il pubblico dal video trasmesso al San Carlo dinanzi a un pubblico in attesa di rivedere gli instancabili dribbling, le impennate, gli slanci, l’eleganza, la grazia, in una parola la sapiente leggerezza del suo gioco nei fotogramma che faranno da sfondo al concerto.

E’ un Diego distante quasi un quarto di secolo dal ragazzo  che ci raccontava, scegliendo con puntigliosa attenzione ogni parola perché esprimesse  esattamente il suo pensiero, come fosse grato alla  patria argentina  per averne ricevuto un dono: quello di fargli vivere il calcio ‘come un sentimento’, che gli occupava la mente ‘ininterrottamente, tutto il giorno’ rendendolo ‘meno sereno di suo fratello Lalo, un elegante sinistro, ma senza ossessioni.’

 Nonostante sembri che ben più di 23 anni separino il Diego che brevemente saluta il pubblico in apertura dello spettacolo che lo vede protagonista e lo splendido ragazzo di allora, ci sembra che forse anche questo Diego in versione sofferta e matura possa ripetere, in buona approssimazione ed a ragion veduta, le parole di allora: sullo scudetto che ‘non cambia la vita perché la  sostanza di questa dipende solo da noi’, sull’essersi sentito sempre ‘immerso nella musica d’insieme della squadra perché il gioco può esigere un solismo soltanto apparente, che non diventa per questo la caratteristica di uno stile’, che la cosa più importante della sua vita è ‘la famiglia, che comprende anche l’amore’, che ‘il pubblico non va mai deluso’, che ‘il debito verso la vita

va riconosciuto ringraziando Dio tutte le mattine’… il Dieguito di 23 anni fa che conclude, usando come un vezzo infantile la terza persona, che ‘Maradona resta quello di sempre, che sta nella sua famiglia e vive Napoli come la sua città.’

 Quando passato e presente si confrontano senza che se ne possano colmare gli inesplorabili spazi  della differenza, resta da chiedersi quanto ancora il passato possa farsi testimone; quanto abbia giocato, nella scelta dello spettacolo da parte degli organizzatori del Festival, quella realtà lontana come una favola della quale ci è piaciuto riportare una testimonianza attraverso le parole testuali di un Maradona ancora nella fase costruttiva del suo progetto di vita. 

Sociologi ed antropologi si sono scomodati a dir la loro su questo personaggio che ha saputo infrangere in pochi anni un personale e collettivo sogno di gloria  ma, al di là di ogni analisi e di ogni giudizio, resta il fatto che oggi uno dei più importanti Festival teatrali del mondo lo abbia considerato  degno di far da ouverture al suo programma con un concerto che lo colloca tra due geni della musica: Niccolò Paganini e Roberto De Simone.

 Figura centrale del Romanticismo,  movimento che si nutrì di ambivalenze e di feconde contraddizioni, Paganini viene accostato a Maradona  per  l’esser stato considerato l’emblema del virtuosismo strumentale, quasi sempre esaltato come la quintessenza della musica, talvolta esecrato come manifestazione di perversione estetica e spirituale.

L’arma vincente del violinista genovese fu la trasgressione intesa come superamento di ogni limite ed insieme  lotta contro la materia per vincerne la resistenza ed annullarne il peso. La sua tecnica si basava sulla gloriosa tradizione italiana settecentesca che egli innovò con  colpi d’arco, posizione antiscolastica del braccio e della mano, modifiche all’archetto che gli consentirono l’accesso a sfere del tutto inaudite del suono violinistico, tanto da far parlare di magia: e ‘ Mago italiano’ è uno degli epiteti usati da Schumann nei suoi confronti.

A lungo si favoleggiò del suo patto col diavolo, leggenda fomentata anche dalla vita dell’artista, errabonda e avventurosa, costellata di comportamenti poco conformi all’etica  tanto da indurre il vescovo di Nizza, dove il musicista morì nel l840, a negargli la sepoltura religiosa.

Non solo dunque il virtuosismo spinto alle soglie della magia, nera per il violinista, quasi consacrata da tutti i “santi” di Napoli per il giocatore, ha  accomunato i  due protagonisti del concerto, ma anche parte della loro vita.

Ciò rende ancor più avvincente la prima parte dello spettacolo dove, muovendosi all’unisono  con la musica, sembra che Diego quasi l’ascolti  nel suo dar vita al pallone distillandone la forma che egli solo vi scorge, nel suo prender coscienza del movimento alla ricerca di una consonanza che lo porterà alla liberazione finale, al volo dove l’energia del corpo si approprierà dello spazio raggiungendo in pieno gli obiettivi promessi a se stesso e al pubblico in piena consonanza fisica e mentale, mentre a sua volta la musica entra in consonanza con l’universo.

Nella seconda parte del concerto, dove la musica sottolinea soprattutto la vittoria dello scudetto del 1987, De Simone sembra voler mettere in luce ancora una volta l’ambiguità del personaggio  in sintonia con quella della città che ha contribuito a segnarne il destino, quel visceralismo mediterraneo del quale il mito di Maradona, attraverso i suoi comportamenti successivi agli anni d’oro del progetto di vita e di carriera, è entrato a far parte.

Ci sembra che ambiguità, trasgressione e visceralismo ed anche un certo esoterismo cultural-popolare possano ben sottolineare  momenti e aspetti di Napoli, ma non al punto da potersene considerare caratteri identificativi.

Nella giornata conclusasi con la lunga di festa dello scudetto, che vide i diversi quartieri allestire ciascuno a suo modo la celebrazione della doppia vittoria,

come in altre significative  circostanze della sua storia, Napoli si unì nel riappropriarsi di quella tradizione ludico-teatrale derivatale da millenni di civiltà. In quella notte nessun conflitto di vicoli, nessun tripudio orgiastico di popolo, nessun baccanale:  solo una città  consapevole  di star celebrando, tutta, in ogni suo quartiere, in ogni suo abitante, un evento che nessuno considerò riduttivamente la vittoria di una squadra, ma un agone al quale essa prendeva parte, galvanizzata dai suoi campioni capitanati dal ragazzo argentino che ‘viveva’ Napoli come una sua seconda patria.

Tra le scritte azzurre che, nella settimana precedente lo scudetto, comparvero a migliaia per la città, almeno una merita un ricordo: ‘Comunque vada, grazie Azzurri’, e la citiamo come commento ad una festa dalla quale mancò ogni dato trasgressivo: sia pure per una notte, la città fu la Napoli ‘gentile’ dell’umanesimo della quale un ragazzo straniero aveva fatto propri i colori,  indossandone la maglietta azzurra e divenendone campione.

 

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