NAPOLI TEATRO FESTIVAL ITALIA Antigone, una e centomila…

25.10.2012 15:56

 

di Anna Maria Siena Chianese

 

… una donna nata da peccatori inconsapevoli che apre sempre nuove prospettive sul mondo e sulla stessa vita nella tensione appassionata di emendare se stessa e quanto la circonda da un peccato originale del quale un fato, apportatore di dolore e di lacrime, è lo spietato artefice. L’archetipo si modula docilmente sul tempo che scorre, modello dalle infinite possibilità di elucubrazione che tenta L. Alamann e F. Mendelssohn, J. Cocteau e Saint Saens, J. Anouilh e Brecht e Mulè e sempre nuovi e appassionati indagatori del suo mistero a rivestirne il mito di parole e di musica, nella inappagata curiosità di spiegare i perché della sua concezione di innocenza e di peccato, di verità e di inganno, di obbedienza e di trasgressione. Delle preziose impronte che la Grecia ha impresso sulla civiltà occidentale, ci sembra che quanto Antigone e il suo mito tuttora rappresentano costituisca una delle più profonde. Gli ideali ai quali l’eroina immola la sua vita non sono solo precursori di nuovi concetti di civiltà, ma eternizzano l’insanabile conflitto tra la legge e l’etica, tra quella morale innata nello spirito e nella mente dell’uomo e la legislazione che questa morale pretende addirittura di infrangere in nome di regole imposte dall’organizzazione di un gruppo o, semplicemente, dell’esercizio del potere.

Nella rilettura di Valeria Parrella in scena al Teatro Mercadante di Napoli, l’eroina si tiene ben salda la sua posizione di frontiera che impone l’obbligo della sepoltura quale rispetto per la morte e tutela della pace alla quale questa, per definizione, conduce. Il fratello Polinice non è tuttavia morto sul campo come il suo archetipo greco: è morto ai sentimenti e alla luce, è chiuso in un mistero impenetrabile dinanzi al quale chi osserva dall’esterno si ritrae poiché ogni scelta è dolore.

Il distacco della spina è per l’Antigone di Valeria Parrella un’opera di misericordia che trova la sua base nell’etica della pietas familiare e civile. Il distacco dalla vita artificiale è la concessione alla sepoltura, un sacro diritto alla quale la legge scritta non può trasgredire. A sua volta Creonte, spersonalizzato nel dramma come il Legislatore e reso quindi simbolo di ogni tempo del potere, ha le sue ragioni che gli impongono di governare al di là di ogni particolarismo, di ogni assolutoria misericordia. Se entrambi soccomberanno, è perché le loro posizioni non sono conciliabili attraverso reciproche concessioni: sono assolute come assoluti sono il bene e il male quando non accettano mediazioni, e destinati a sopraffarsi senza né vinti né vincitori finché la civiltà non avrà generato un modello di organizzazione politica nel quale l’assolutismo giustizionalistico della legge si edifichi sul sostrato permanente e ineludibile dell’etica, fondamento di ogni progresso civile.

Questa tragedia del dolore viene dispiegata nello spettacolo con grande cura dei mezzi espressivi, dalle luci sempre in procinto di venir inghiottite dal buio avanzante ai volti segnati dai violenti contrasti di un bianco ed un nero privi di conciliatorie penombre.

La magistrale regia di Luca de Fusco, l’ineccepibile interpretazione degli attori, le intriganti scene di Maurizio Balò, i raffinati costumi di Zaira de Vincentiis, le musiche, l’ottima interpretazione di Gaia Aprea etichettano lo spettacolo tra quelli da non perdere.

Il Tiresia di Antonio Casagrande è un piccolo gioiello di regia e di recitazione dove la ieraticità profetica del vate viene tradotta in una accattivante lezione da Lare domestico e paterno che vorremmo ancora al nostro fianco col suo lessico familiare, al di là del tramonto dei miti, della fede, dei sogni.

 

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