Muller-de Laclos: Quartett al Teatro Elicantropo

09.02.2014 10:30

Il romanzo di Pierre-Ambroise de Laclos, Les liaisons dangereuses, fu riproposto nel Novecento col sintetico titolo Quartett da H.Muller che, raccogliendo il testimone, sembrava la risposta adeguata al sottotitolo del testo destinato dall’autore “all’istruzione di altre società”. Scritto nel 1782, l’epistolario tra la Marchesa de Merteuil e il Visconte de Valmont può considerarsi il bacato frutto di un secolo che accese alla meno misericordiosa delle dee le sue fiaccole. Alle sue luci, ormai in procinto di spegnersi, i protagonisti ordiscono la ragnatela dorata dove si compirà il sacrificio dell’innocenza, il più appagante per i loro stanchi desideri. Emblemi di una società vuota di sensi e d’ideali, che ancora danza in una splendida e disperata Parigi sull’orlo di un vulcano che esploderà tra qualche anno nella Rivoluzione, con strategie dall’apparente grazia settecentesca i due protagonisti allestiscono in realtà la rigorosa architettura neoclassica di un evento in divenire: un gioco di pura ragione nel quale la suadente forza di induzione al male avrà ragione del fragile vuoto di valori delle due impari vittime. Tutto quanto ha reso il testo di de Laclos, e poi quello di Muller, un atto di denuncia contro gli ineludibili e inguaribili morbi della società umana e ne ha assicurato la fortuna nelle epoche successive, è magistralmente tradotto nella sceneggiatura, nella scenografia e nell’interpretazione di Quartett in scena al Teatro Elicantropo, per la regia di Carlo Cerciello. L’essenzialità stilistica del testo si riflette nello spazio vuoto, dal candore percorso da baluginanti vampate e azzurri pallori di crepuscolo evocati dalla musica. Il labirinto dell’ideologia dei sensi, dalla gelida voluttà del male a quella apparentemente accesa del desiderio, è la sede dove i personaggi si duplicano nei ruoli alterni, coltelli e piaghe, vittime e carnefici. Va detto che non vi è cambio né di scena né di costumi, ma sono gli stessi protagonisti a rendere le loro vesti con piccoli tocchi, ora frivoli abiti settecenteschi, sia pure senza volant o merletti, ora le scanalature di una rigida colonna in grado di reggere il greve peso dell’impeccabile edificio degli inganni. Nei due protagonisti lo sdoppiamento o, meglio, la moltiplicazione, fa da trait-d’union tra le volute del labirinto dove le parole, apparentemente alate come i candidi velari di ambigui séparé, sono gli aguzzi puntali di un gioco a fioretto che stuzzica i giocatori, ma esige da essi le sue vittime. 

Anna Maria Siena Chianese

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