La Venere callipigia al Museo Archeologico di Napoli

08.03.2015 09:46

Il Museo Archeologico di Napoli è, indubbiamente, per i tesori di arte classica romana, in esso custoditi, il più importante al mondo.

La struttura nel 1585 sorse, originariamente, come caserma di cavalleria, per volontà dell'allora viceré spagnolo, il duca di Osuña, don Pedro Téllez-Girón de la Cueva Velasco y Toledo.

Due secoli dopo, esattamente nel 1786, in ragione dei tanti reperti archeologici, che di continuo, tenuto, altresì, conto che gli scavi fossero solo agli inizi, vi venivano ritrovati ad Ercolano e Pompei, il Re Ferdinando IV di Borbone decise che, unitamente alla Collezione Farnese, già, proprietà indiscussa della propria famiglia, fossero tutti collocati in un unico bacino museale, dove, ancora oggi, si possono ammirare nel citato Museo Archeologico Nazionale, vanto della nobilissima Città di Napoli.

Tanti sono i numerosi capolavori in esso presenti e di cui ci sarebbe moltissimo da dover discutere, perché, al di là dell'immenso valore artistico da essi espresso, sono, comunque, la testimonianza, non solo della storia napoletana, bensì dellaciviltà umana.

Un esempio può essere la Venere callipigia.

La statua raffigurante la dea della bellezza, spesso e non a torto, è indicata come la più sublime espressione della sensualità dell’arte marmorea scolpita, che vuole evidenziarsi, non nella profondità del proprio sguardo, bensì in quello erotico del suo fondoschiena .

Mi riferisco alla, già, citata Venere, le cui morbide forme dei suoi glutei, indubbiamente, hanno coniato il nome artistico di “callipigia”, che in greco antico significava, per l’appunto, “dalle belle natiche”, spiegazione, che, etimologicamente, trae origine da kalòs=bello e da pygos= natica.

Capolavoro scultoreo di età adrianea, fu rinvenuto a Roma non molto distante dalla celebre Domus Aurea neroniana ed in seguito trasferita nel capitolino palazzo Farnese.

La dea/fanciulla da l'impressione di essersi fermata nell’atto di fare il bagno, perché intenta a contemplare, compiaciuta, le proprie forme, mostrate con grazia, dopo aver sollevato il proprio peplo, affinché scoprisse i fianchi ed i glutei e volgesse, contestualmente, lo sguardo dietro le spalle per osservarli, in un rituale femminile conosciuto come anasyrma, alias il gesto di alzare su una veste con femminilità e perché no con intento esibizionistico.

La scultura, poi in parte restaurata, ha proprio nelle natiche, cariche di emotività erotica, il punto focale di massima attenzione da parte di chi l’osserva; il morbido e sensuale panneggio, scoperto e rialzato sui glutei dal movimento suadente della mano sinistra, valorizza, parossisticamente, l’opera, che, non è escluso, forse, in origine, decorasse un tempio od un ninfeo.

Francesco Martines

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