La grande Festa di Viviani al Teatro Sannazaro di Napoli

25.11.2013 20:51

Colloquio con Lara Sansone

Ancora si scrive e si parla di lui. Per oltre un secolo, gli esponenti della cultura nazionale, da Scarfoglio a Scarpetta, da Lucio d’Ambra a Eduardo, da Compagnone a Pasolini, da Prisco a Soldati, da De Simone a Ghirelli a Marotta a Bassani hanno contribuito alla vasta letteratura sul piccolo, grande interprete dell’anima più profonda e segreta della città: Raffaele Viviani, il volto inciso da solchi di vita che solo un Gemito poteva esplorare. Parliamo di lui anche stasera, mentre gli echi della Festa di Montevergine si disperdono senza che ne svanisca l’effetto d’urto. Nella secolare catena dei giudizi e delle critiche  che hanno cercato di classificare il suo modo di far teatro, spicca una definizione essenziale di Matilde Serao: «Sono 10 anni che i nostri autori litigano per stabilire quale sia il vero teatro napoletano. Questo ragazzo lo ha creato in così poco tempo». E di teatro napoletano si tratta a proposito del teatro vivianesco e non, semplicisticamente, di teatro popolare. Pur gremita spesso di personaggi e di arredi, nella scena di Viviani ogni cosa risponde infatti ad un modello che trova nella tradizione di Napoli l’archetipo, e pertanto si traduce in una realtà diversa da ogni altra. Nell’allestimento della commedia che, per argomento e ambientazione, può esser considerata emblematica di teatro popolare, La Festa di Montevergine, tutto rientra in un armonioso assetto compositivo e plastico. Dai tavolini delle trattorie alle surreali carrozze tirate da scugnizzi, dalle mura stinte di antichi palazzi rivive la città antica mentre il mistero religioso che s’intravede dall’arco di una chiesa sembra riflettersi senza stridori sacrileghi nelle carrozze infiorate e negli abiti sontuosi delle donne, scelti per un giorno dal quale la divinità si aspetta una festa, e non un olocausto. La parlata dialettale e la gestualità che l’accompagna e, talvolta, la sostituisce, si intrecciano in un’arguta trama apparentemente giocosa e sostanzialmente drammatica, ma sempre incontaminata da cadute carnascialesche. Se le tensioni tra le due coppie si acuiscono via via che il dramma matura fino alla imprevista soluzione finale, se la commozione si eleva dal gruppo dei pellegrini come un incenso votivo verso un altare provvido di miracoli  per poi sfogliarsi negli stanchi petali di un dolore tenuto a bada dalla speranza, l’acuta, amara ironia e il rapido gioco delle battute fanno da diga perché  rabbia, vendetta, odio e furore non abbiano cittadinanza sulla scena se non nella loro essenza sublimante. È il corale riconoscersi di un popolo nei suoi santi come nei suoi peccati, nella sua pietà come nei suoi vizi e per il quale la familiarità col dramma è anche padronanza di esso, scommessa di una vittoria in risposta alle insidie di una vita che esige destrezza per venir fino in fondo vissuta, nel suo bene, oltre che nel suo male. Viviani fa della sua scrittura l’arrangiamento in un gioco dove la radice popolare si trasforma in realtà universale, soggetto di poesia e di tragedia. In tal senso, il suo è teatro sociale e la festa non è una maschera, ma lo sberleffo scaramantico di una società resistente da secoli a contraddizioni che ne mettono in gioco la stessa sopravvivenza,

Per questa assoluta appartenenza alle radici dei suoi personaggi, Viviani ne scelse spesso gli interpreti fra la gente comune o tra gli attori del Teatro di Varietà, anche quando ai suoi lavori si aprì la platea internazionale, fino all’Olympia di Parigi e anche se i suoi interpreti furono, o divennero, i più grandi del teatro napoletano, da  Regina Bianchi a Tecla Scarano, da Dante Maggio a Luisella Viviani, da Elvira Donnarumma ad Amedeo Girard a Gennarino di Napoli a Luisa Conte, indimenticabile interprete di un’edizione della Festa di Montevergine che ci viene proposta dalla Compagnia che porta il suo nome, per iniziativa di un’attrice che ebbe nella indimenticata Luisa un’eccezionale maestra di teatro e di vita, Lara Sansone.

Parlare della versatilità, della delicata bellezza, della presenza scenica di Lara Sansone è quasi ovvio, dato il nome che la giovane attrice si è già guadagnato nel panorama teatrale. Lara ha avuto dalla sorte il carisma, un dono raro, ma indispensabile a chi voglia comunicare al mondo sentimenti e pensieri, ma ha saputo arricchirlo con lo studio della materia teatrale, dal dramma alla farsa al canto alla danza. Può affrontare così il non facile lavoro vivianesco, forte anche di un’ancestralità che mantiene le sue promesse. Pur prevedendone la risposta, le chiediamo di parlarci del ruolo che sua nonna, Luisa Conte, ebbe nella sua vita.

È stata lei a guidarmi nel mio percorso artistico e umano. Mia nonna era una donna molto forte e severa, ma aveva con me un rapporto di  complicità e di tenerezza che mi manca moltissimo.

Possiamo mettere una data al tuo debutto sul palcoscenico?

Ho incominciato a far l’attrice a cinque anni, sostituendo un bimbo malato nella Lisistrata di Aristofane.

Ti lasci di solito guidare nella scelta del tuo ormai notevole repertorio teatrale?

Scelgo i miei lavori da sola, sulla base di convinzioni e di studio. Mi confronto molto con mio marito (Salvatore Vanorio n.d.r.), che da sempre mi sostiene e mi consiglia.

Hai in programma testi appartenenti al teatro classico in lingua?      

Non vi ho pensato per ora anche se, qualche tempo fa, ho frequentato il Pigmalione di G.B.Shaw.

A quale autore e a quale testo sei particolarmente legata?

Ho una particolare predilezione per Raffaele Viviani, così viscerale e popolare nel senso più difficile del termine, ma amo molto anche Eduardo, diverso, borghese, ma assolutamente magico nel descrivere livori e turbamenti dell’animo femminile. Penso a Filumena Maturano, amara, umana, passionale e dolente… glaciale, un vero regalo per le attrici di ogni generazione.

Ed ora Montevergine, scelta audace di un percorso scabroso, pieno di trappole…

Sì, un progetto ambizioso, difficile, impegnativo, che sentivo vicino alle mie corde d’assemblatrice, per non  dire di regista. Poteva risultare un’arma a doppio taglio se non avesse incontrato il favore del pubblico, ma io credo molto negli spettacoli dinamici, coinvolgenti, che possano offrire diverse chiavi di  lettura.

Hai tre splendidi figli: noti in essi delle tendenze che lascino prevedere una continuità con te e con la nonna Luisa?

Tutti e tre amano l’arte, la musica, il teatro. Per ora studiano il sax e il pianoforte. Greta ama cantare e ha una bella voce, ma spero che possano far altro nella vita.

Un’altra delle tue iniziative: il cafè-chantant, che ti vede brillante protagonista …

…e che nasce dalla mia voglia di lustrini e pailletes, dalla mia ammirazione per le grandi soubrette, belle, spensierate, intriganti…magiche. Da piccola volevo essere una di loro, ma il teatro napoletano offriva solo ruoli di cameriere, di ragazze umili, affamate e poverissime. Il Cafè-chantant mi ha dato l’opportunità di giocare con me stessa, e di cambiare pelle!

In attesa dello scintillante Cafè-chantant natalizio dove Lara non cambia pelle, ma indossa vesti che sembrano prese da una Hollywood degli anni d’oro o da una favola, ci accomiatiamo da questa Festa di Montevergine, spettacolo del quale Lara ha firmato anche la regia, che segna sicuramente una tappa importante nella sua carriera e che si avvale dell’organizzazione dell’attore-regista SalvatoreVanorio, dell’interpretazione di attori quali la bravissima Ingrid Sansone, Mario Aterrano, Cino Capano, Lucio Pierro, Chiara De Vita, Patrizia Capitano, Gino Curcione, Matteo Salzano e dei molti altri che si sono calati con  viva partecipazione nei complessi personaggi della commedia. I costumi sono di Luisa Gorgi Marchese, le musiche di Viviani sono arrangiate da Paolo Rescigno, Studio 52. Lo spettacolo, da non perdere, si replica fino al 1° dicembre.

Anna Maria Siena

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