Al Real Orto Botanico di Napoli il Pozzo e il Pendolo Cent’anni di solitudine di Gabriel Garcia Marquez

18.07.2013 20:38

Al termine della stagione teatrale, l’edizione estiva del teatro Il Pozzo e il Pendolo ravviva del suo vento da brividi l’estate con una rassegna dove ogni titolo ha la sua ragione di far parte del progetto ad ampio respiro che attinge dal teatro internazionale stimoli e suggestioni. Nella splendida cornice del Real Orto Botanico di Napoli, dove ci si inoltra lasciandosi alle spalle come per incanto perfino il ricordo dell’afa incombente sulla città, ecco imbandita la tavola di vari sapori e colori che stuzzicheranno curiosità ed appetiti non solo della mente e dello spirito, ma anche quelli più pragmatici e concreti degli spettatori e che le famose Cene con Delitto terranno sospesi insieme al fiato, ma solo fino a un certo punto. La strategia registica non sbaglia un colpo nel legare in un intreccio ammaliante mente, spirito e sensi: ne è prova la frequentazione sempre più intensa che, nelle tredici edizioni della rassegna, si è allargata a comprendere diverse fasce generazionali assieme ai giovani, i più pronti e interessati all’appello del teatro di Annamaria Russo e di Ciro Sabatino. Che siano proprio i giovani i partecipanti fissi, da sempre, degli spettacoli de Il Pozzo e il Pendolo è segno della freschezza inventiva di quelli che potremmo definire gli arrangiamenti degli spettacoli perché nel presentare, alternandole sapientemente alle recenti, opere lontane decenni, secoli e addirittura millenni la regia ne scrive ogni volta una partitura nuova pur senza scadere mai nella, purtroppo diffusa, tentazione di attualizzarle. Il contenuto sembra acquistare una nuova brillantezza pur restando intrigante oggi come allora, come ai tempi che tali opere hanno generato. Il segreto dell’incondizionato successo del teatro del Pozzo e il Pendolo crediamo stia principalmente in quel rispetto col quale i registi si accostato ai testi spesso sacri che mettono in scena, come nel caso di questi magici Cent’anni di solitudine che oggi come allora, nel lontano e a sua volta magico 1967, ci uncina al suo amo capzioso per portarci in una città sospesa in una atemporalità che l’annullamento di coordinate rende complice e preda di una condizione immutabile: la solitudine delle cose e delle persone, delle anime e dei corpi, degli scambi e delle fantasie, delle delizie, dell’inganno e dei disinganni dell’amore. È una solitudine che lo spiazzamento sogno-realtà rende sontuosa e annichilente come quella della luna e che non ha niente a che fare col numero di persone che formano le diverse generazioni dei Buendia abitandone la casa: la casa delle memorie e dei riti che ancora riceve dal suo patriarca ombre e luci. Josè Arcadio Buendia è il fondatore della città, della casa e degli abitanti che da lui prendono vita, una labile vita le cui cadenze possono rintoccare come echi di lontane grandezze, o come suoni di funeree campane. Egli è la cornice immobile nella quale si incastrano quelle temporali dove via via si dipana la vicenda della dinastia e dove sembra annidarsi qualcosa del vecchio ordine fascinoso lasciato disperdere nella polvere di sentimenti scaduti e di immarcescibili dolori. L’elegia di Marquez alla memoria di un vecchio Sud, simbolo della dolorosa dolcezza che rende la vita una colpa da espiare amputando il tempo del suo futuro pur nella languida bellezza della natura circostante, segna nella fervida e creativa atmosfera degli anni Sessanta un punto fermo sul quale rivedere i tempi e i luoghi del mondo e interrogarsi sugli infiniti perché di felicità solo sognate, di sofferenze senza ribellioni, di vite lasciate cadere nella polvere della storia, vane e affascinanti come i petali gialli delle farfalle di Remedios. Anche la morte, che è in agguato, è vicina, è in noi stessi può esser dolce se accolta con gli antichi riti dove la natura tesse con le sue foglie la trama irripetibile delle stagioni della vita. Fin dal suo apparire Cent’anni di solitudine, considerata l’opera in lingua spagnola più importante dopo il Don Chisciotte, segna un momento determinante nella storia di anni già densi di storia. Nel sagace arrangiamento di Annamaria Russo, la vicenda è narrata nelle sue fasi determinanti, in un alternarsi di voce e di suoni che fin dal primo momento esige la partecipazione incondizionata del pubblico. Lo spettacolo scorre sulla doppia partitura delle parole e dei suoni che in perfetta sintonia si rispecchiano le une negli altri tessendo la intrigante trama degli avvenimenti. Per gli interpreti non si può che provare addirittura entusiasmo. Paolo Cresta è il narratore, un narratore instancabile e dai toni estremamente appropriati allo spirito del testo che ci dispiega dinanzi, evocandone le immagini col convincente verismo di una partecipazione appassionata. Quanto ai musicisti, i Ringe Ringe Raja che in assoluta fusione di suoni e di interpretazione sottolineano lo svolgersi della vicenda, il clarinetto di Massimiliano Sacchi, del quale la cultura ad ampio raggio del musicista sa adattare sagacemente la voce ad ogni tema e ad ogni tempo, sembra incidere nel buio nel quale ogni tanto si allontana la scia luminosa di una cometa persa negli gli stessi cieli dove le verità talvolta si annidano, per trascolorare nella conciliante irrealtà dei sogni ed è questo suono a rievocare quel realismo magico che fin dall’uscita del libro servì a definire la scrittura di Marquez, eloquente ossimoro che qui il suono magistralmente torna ad evocare.

Regia, interpreti, musicisti di uno spettacolo europeo nell’espressione più significativa del termine, degno di figurare in rassegne per ampie platee ben più degnamente di quanti spesso fanno capolino da altisonanti cartelloni, i Cent’anni di solitudine di Marquez rinnovano, nel sontuoso, aristocratico, affascinante, antico giardino di casa nostra la loro sontuosa, aristocratica, affascinante, antica magia.

 

Anna Maria Siena Chianese

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